Linguaggio inclusivo e disabilità: ci sono termini da usare per parlare e scrivere?

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Genova, palazzo Ducale, salone del maggior consiglio, evento, Sportability, Lo Sport per la disabilità. Claudio Arrigoni e Michele Corti

Con la parola “disabilità” nel parlare e nello scrivere si legittima l’esistenza della persona in quanto tale. Come per ogni cosa, serve ricordare che le modalità con cui si affronta un argomento condizionano culturalmente l’accettazione di una determinata categoria sociale, in positivo o in negativo. Per questo diviene importante studiare e conoscere la terminologia più adatta da utilizzare. L’obiettivo principale è, ovviamente, quello di determinare e definire le persone con disabilità come semplici individui interni alla società, e non fossero altro. Un tema, questo, particolarmente caro a questo progetto e affrontato in particolare con Claudio Arrigoni anche nel primo SportAbility Forum a Genova.

Ci sono alcune caratteristiche e premure che il miglior linguaggio che si approccio a questa realtà sociale deve tenere a mente. Prima di qualsiasi ragionamento va ribadita una premessa concettuale. Le parole usate sono il è il riflesso della cultura che ci identifica. Quando si parla o si scrive di disabilità, ci si deve ricordare che si mette in atto un processo culturale, base per la realizzazione obbligatoria dell’esistenza di concetti sociali ben precisi. Per raccontare, nel nostro caso, non si può prescindere da una regola semplice, semplice: si deve parlare di persone con disabilità. I termini “persona” e “persone” sono fondamentali, in quanto ognuno di noi è prima di tutto un individuo. Dunque si trasmettono storie di individue in una società. Non è corretto sostantivizzare gli aggettivi. Sarebbe, in sintesi, opportuno non utilizzare la parola “disabile” come sostantivo, utilizzandolo sempre accompagnato da termini che identifichino l’individuo in quanto tale.

Affiancare le due parole attribuisce alla disabilità un valore secondario, non di malattia. Insomma, la prima posizione spetta all’essenza di persona e si evita così di identificare l’individuo unicamente con la propria disabilità. Il punto successivo da evitare coinvolge pietismo e tratti eroici forzati. Si sta parlando di persone che hanno pregi e difetti. Serve raccontare la semplice realtà, addandola poi al contesto della conversazione o del testo.  È necessario evitare di descrivere la persona collegandola unicamente con la propria condizione in ottica pietistica. Come abbiamo visto prima, si può scrivere “persona con sindrome di Down”, “persona con morbo di Alzheimer”, “persona con SMA”, “persona con autismo”. Si può parlare di “menomazione”, ma solo in discorsi di natura tecnica. Non si sbaglia se, per udito e vista, si usano i termini puri e diretti: “cieco” e “sordo”, senza alcuna negazione. È spesso preferibile.

Qualche consiglio anche sulle parole che sarebbe decisamente meglio evitare. Ad esempio, sarebbe opportuno eliminare dall’uso comune alcuni riferimenti alle persone con disabilità attraverso le parole “handicap” e “handicappato”, o attraverso qualsiasi locuzione a ciò che concerne l’handicap in senso stretto. Pure “affetto da disabilità”, “portatore di” e “diversamente abile” non meriterebbe spazio nel nostro linguaggio. Come già anticipato, alcuni aggettivi che rimandano ad una condizione difficile e pietosa, anche se utilizzati senza malizia, vanno assolutamente cancellati: “poverino”, “infelice”, “angelo” e simili. Si lasci che siano i fatti, le azioni umane, l’autobiografia a definire le persone. Nemmeno da dire quanto sia sbagliato utilizzare forme che descrivono in maniera dispregiativa.

SportAbiliy si occupa proprio di raccontare storie di sport e sportivi. Inclusione, divertimento sono un elemento fondamentale di questo progetto che, però, resta focalizzato sul talento sportivo e sul movimento paralimpico. Così un assist sull’argomento lo ha fornito proprio Luca Pancalli, presidente del CIP, in un’intervista ad AbilityChannel: “Il mondo dei media ha cominciato ad accorgersi del movimento, e ha intrapreso con noi un percorso di crescita nella capacità narrativa anche di tipo culturale, che fosse rispettosa del movimento sportivo e che perdesse tutti quegli orpelli di attenzione solidaristica e pietistica che caratterizzavano un po’ il passato. I giornalisti hanno imparato ad ascoltare le nostre esigenze, ad ascoltare le nostre riflessioni di politica sportiva e a comprendere che noi attraverso lo sport tentavamo di mettere in moto dei meccanismi di comprensione e non compassione”.